Siamo una nazione, decidiamo noi.
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Siamo una nazione, decidiamo noi.

Il grande movimento politico e sociale che rivendica l’indipendenza della Catalogna è il risultato di una lunga gestazione riconducibile a tre crisi: una sociale, conseguenza delle politiche di austerità e neoliberiste volute dalla Spagna e dall’Unione Europea dopo la crisi finanziaria del 2008; una, politica, dei capisaldi del “regime del 1978”, dovuta alla perdita di credibilità dei sistemi politici occidentali, che si inserisce nel solco tracciato dalla delegittimazione della democrazia rappresentativa liberale e dalla diffusa corruzione nel tessuto dei poteri; infine, una crisi nazionale, risultato della perdita di sovranità degli Stati nazionali a causa del processo di integrazione europea.

Dopo la vittoria alle elezioni del novembre del 2011, il popolare Rajoy applica un massiccio piano di tagli e privatizzazioni: una nuova riforma del lavoro che amplia la flessibilità e la libertà di licenziamento; tagli al settore pubblico ed al welfare, in particolare nella sanità e nell’istruzione; aumento dell’Iva e della pressione fiscale; diminuzione dei salari e decurtazione delle pensioni e dei sussidi di disoccupazione.

I provvedimenti vengono imposti dal Fondo Monetario e dagli organismi dell’Unione Europea, che ottengono cambiamenti strutturali dell’economia iberica contro prestiti per decine di miliardi di euro.

Di fronte a un lento miglioramento degli indici macroeconomici tuttavia le riforme hanno generato un drastico aumento delle disuguaglianze sociali. La Catalogna non è estranea ai fenomeni affermatisi nel resto dello Stato spagnolo in conseguenza della gestione della crisi economica.

E’ necessario anche non sottovalutare la crisi degli equilibri istituzionali cristallizzati nella Costituzione del 78 in conseguenza di spinte contrapposte.

Uno degli elementi cruciali alla radice dello sviluppo dei sentimenti politici indipendentisti nell’area è ritenuto il processo di riforma dello statuto catalano, iniziato nel 2003 e terminato nel 2010 con la pronuncia del Tribunale costituzionale spagnolo che ha annullato alcuni articoli re-interpretandone altri, depotenziando di fatto il documento e limitando l’efficacia giuridica della definizione della Catalogna come nazione; dichiarando incostituzionali i 14 articoli relativi alla capacità di definire i poteri regionali mediante un elenco dettagliato delle competenze della comunidad, dalla dignità statutaria riconosciuta alla politica linguistica alle prerogative legislative sul finanziamento locale; infine, imponendo un’interpretazione restrittiva di altri 27 articoli. La sentenza viene letta in chiave anti-catalana e provoca un diffuso sentimento di indignazione che trova il suo culmine in una massiccia manifestazione di protesta convocata a Barcellona il 10 luglio 2010 con lo slogan <<Siamo una nazione. Decidiamo noi>>.

In linea tendenziale, l’idea di una repubblica catalana coincide con un progetto di presidio dello stato sociale, del welfare, dei diritti sociali e del reddito, in maniera simile a quanto accade nel caso scozzese, che subisce assai meno lo stigma della matrice economicista e viene classificato da molti commentatori come esempio di nazionalismo “civico”.

Mi sembra scorretta una classificazione che distingue il nazionalismo “civico” buono (basato sulla cittadinanza) da quello etnico “cattivo” (basato invece su elementi come la discendenza, la lingua, il carattere nazionale ecc.). In realtà tutte le forme di nazionalismo, che si riferiscano ad uno Stato già esistente o che ne propugnino la fondazione, sono l’ibridazione di elementi di natura “civica” e di natura “etnica”.

I tentativi di operare una demarcazione radicale si rivelano fallimentari sul piano pratico: gran parte delle nazioni infatti manifesta un equilibrio tra questi due elementi, oppure oscilla tra le due concezioni combinandole in molteplici configurazioni. Il nazionalismo catalano, nel bene e nel male, non fa eccezione.

Nell’ambito di queste caratteristiche, la lingua è quella che incarna il più ampio valore simbolico. D’altra parte non pare strano che la Spagna franchista abbia indirizzato i suoi sforzi verso la cancellazione del catalano come lingua pubblica, veicolare e di cultura, ottenendo però risultati molto scarsi grazie alla resistenza esercitata dalle classi dirigenti catalane, pur integrate nel sistema dittatoriale.

E’ difficile poter tracciare un bilancio della recente crisi catalana. La partita rimane aperta.

Nello scenario della regione si manifestano due posizioni competitive e complementari: da una parte ERC ed il PdeCAT, che vorrebbero ricondurre il conflitto all’interno di regole del gioco condivise; dall’altra, la posizione della sinistra indipendentista che persegue la strategia della disobbedienza nei confronti di Madrid.

Gli stati maggiori catalani probabilmente non erano pronti ad assumersi le conseguenze della repressione spagnola.

Il processo è andato avanti finchè si è trattato di una manifestazione festiva, pacifica e con un basso costo per i partecipanti. Non mi riferisco solo agli arresti, ma anche a come portare avanti un processo di disobbedienza nel lungo periodo che, a volte, oltre che pesanti sanzioni, implica giocarsi prospettive di carriera professionali.

Indipendenza senza conseguenze è impossibile, se pensiamo anche che imprese e banche si preparano a lasciare definitivamente la regione.

Il Govern è arrivato all’appuntamento della proclamazione dell’indipendenza impreparato, senza aver studiato alcun sistema di gestione delle istituzioni locali.

Al pronunciamento non ha fatto da contraltare la predisposizione di alcuna strumentazione istituzionale minima necessaria a trasformarlo in effettivo: una forza armata, una moneta ed una banca centrale, un controllo dei movimenti di capitale e delle frontiere, un apparato amministrativo indipendente, una mobilitazione di piazza permanete e capillare pronta alla disobbedienza verso le istituzioni statali ormai considerate illegittime.

E’ anche vero, tuttavia, che il gruppo dirigente indipendentista è andato allo scontro con l’ordine costituito e con l’establishment spagnolo.

I leader indipendentisti stanno pagando un prezzo personale, non più solo politico, altissimo: dal carcere,all’esilio, all’inabilitazione perpetua dai pubblici uffici.

La vicenda catalana, provocando la maggiore crisi dell’Unione Europea degli ultimi anni, ha messo a nudo l’ipocrisia dei discorsi sulla difesa dei diritti e della tolleranza di cui questa istituzione si ammanta.

Mi pare che la sinistra europea, sarda e italiana, che hanno liquidato con sufficienza quanto è avvenuto in Catalogna in nome di una tradizionale avversione al “nazionalismo”, si siano orientate in base e due pregiudizi: che i grandi Stati sarebbero i soli in grado di sostenere i compiti dall’economia capitalistica globalizzata e che dunque la rinascita nazionalista attuale incarni una frammentazione e una disgregazione contro cui lottare.

In realtà è bene non dimenticare i secoli di violenza e di autoritarismo che hanno condotto a edificare gli Stati unitari oggi in crisi e che dietro la retorica della frammentazione si cela un conservatorismo radicale che immagina ogni status quo come naturale.

E’ vero invece che la gran parte di coloro che in Catalogna subiscono la repressione, il carcere, la persecuzione, non sono differenti da coloro che in altre situazioni e in altri paesi si battono per l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà, la democrazia, i diritti sociali e civili.

Dovremmo compiere lo sforzo di farci orientare dall’empatia e non dal pregiudizio.

Possiamo permetterci di non definirci nazionalisti solo perchè il processo di costruzione nazionale in cui ci identifichiamo si è già affermato, consentendo alla nostra identità nazionale di essere data per scontata, poiché già oggettivizzata nella istituzioni che ci governano.

L’area progressista non si è resa conto, ancora, del rifiuto di mettere sullo stesso piano i nazionalismi “di successo” e quelli che puntano alla fondazione di un nuovo Stato.

Il nazionalismo conservatore, di Stato e unitarista, non viene percepito come tale poiché, siccome “di successo”, è già una realtà acquisita e normalizzata.

Dobbiamo invece iniziare ad ammettere che in un certo qual modo siamo tutti nazionalisti e che il termine “nazionalismo” è un fenomeno complesso che spesso descrive fenomeni politici e sociali completamente diversi e non omogenei.

Si pensi poi che in Catalogna molti di coloro che si professano indipendentisti spiegano il proprio orientamento non in relazione a legami di tipo identitario o simbolico ma attraverso l’inclinazione a possedere una strumentazione istituzionale tale da avere maggiori capacità decisionali sui grandi temi politici ed economici.

Questo spiega come mai la strategia secessionista sia condivisa da formazioni della destra liberale e progressiste che, vedendosi alleate, comprendono come in un pianeta di Stati l’unica modalità in cui una comunità può esercitare in modo incisivo i propri diritti e tutelare i propri interessi è quello di avere a disposizione uno Stato proprio.

Fino a quando la Spagna continuerà ad arrestare ed oltraggiare i dirigenti catalani, quella nazione d’Europa non potrà che continuare a resistere, lottare, mobilitarsi.

La Spagna sottovaluta che il popolo catalano è coraggioso.

All’interno dei seggi, durante la giornata elettorale del primo ottobre, la frase più ricorrente pronunciata dagli anziani dopo aver votato era: <<Non piegherò la testa proprio ora!>>

Molti catalani avvertono che si è aperta un’opportunità, finalmente, per il loro storico desiderio di libertà e giustizia e dunque non si deve farsela scappare.

Strategia riformista? Strategia oltranzista? Vedremo. L’importante, credo, è non lasciarsi sfuggire che anche le grandi mobilitazioni pacifiche, come quella catalana, con la pazienza e nel lungo periodo possono essere in grado di piegare anche grandi dispiegamenti di forze come quelle poste in campo dallo Stato Spagnolo e che il lungo corso della storia, grazie a uomini generosi e di buona volontà, può assumere nuove, poetiche e più avvincenti direzioni.